Nel Manifesto del partito comunista, Marx ed Engels esaltano la borghesia per aver creato forze produttive senza precedenti nella storia umana, che hanno generato opere «ben più mirabili che piramidi egizie, acquedotti romani e cattedrali gotiche» e «ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate». Allo stesso tempo, mostrano l’incompatibilità fra il pieno sviluppo di tali forze e il mantenimento dei rapporti sociali borghesi, operando una distinzione preziosa — che nel Novecento sarà spesso dimenticata — fra tecnologia e sistema dei rapporti sociali.
Proprio in virtù di tale distinzione, nel mondo contemporaneo la tecnologia ha un volto rivoluzionario e uno conservatore. Ciò vale, ovviamente, anche se parliamo di tecnologia applicata al mondo dell’alimentazione, la quale può avere come fine tanto la creazione del cibo industriale più banale, piacione, modellato da criteri di medietà gustativa, quanto viceversa una rivoluzionaria estensione del linguaggio culinario. È quest’ultimo il caso dell’esperienza elBulli, che ha portato le innovazioni dell’industria alimentare, farmaceutica e più in generale chimica al servizio dell’alta cucina, dando luogo così al più grande balzo in avanti tecnico, estetico e concettuale della storia della cucina d’autore.
Tale balzo in avanti è stato possibile grazie a un uso delle tecniche industriali genialmente in contraddizione coi rapporti di produzione esistenti. Manifestazione tangibile di tale contraddizione è stato il fatto che elBulli, come ristorante, era un’attività in perdita: per dirla in termini sraffiani, non vitale. E infatti ha chiuso. Non per mancanza di clienti, ma per i costi eccessivi, essendo stato fino al 2011 un ristorante che faceva ricerca di livello industriale senza poter sfruttare al contempo economie di scala, in un mondo in cui i rapporti sociali e la cultura ancora borghese impediscono un significativo investimento collettivo nella ricerca finalizzata all’ampiamento degli orizzonti del piacere sensoriale.
Poiché la conservazione dei rapporti sociali esistenti implica sul piano culturale la necessità di bilanciare il riconoscimento dell’importanza del progresso tecnico con l’esaltazione degli “equilibri” della natura — semplice metafora dei presunti equilibri economici e sociali — non sorprende che la centralità nella scena culinaria mondiale della tecno-avanguardia spagnola sia stata rimpiazzata da quella del “naturalismo” prima scandinavo e poi sudamericano. Vengono ora celebrate le fermentazioni come processi spontanei, in cui a esprimersi è la sapiente mano invisibile della natura, che l’uomo non deve forzare ma semplicemente assecondare.
In questo scenario, Ferran Adrià (che sostiene che nulla di nuovo è stato fatto dalla chiusura di elBulli nel 2011) può apparire a chi non disponga della giusta chiave di lettura come l’avanguardista del passato che non capisce ciò che è venuto dopo di lui. In realtà, semplicemente, egli non è integrabile — perché troppo intelligente, analitico, razionale, coerente — né nella moda del naturalismo culinario contemporaneo né tantomeno in quella, a quest’ultima collegata (al di là di superficiali opposizioni), del ritorno alla tradizione. La sua è stata una cucina prometeicamente “contro la natura”, una cucina barocca dell’artificio che non ha e non può avere nulla a che spartire col filone naturalistico oggi dominante. La sua figura si staglia solitaria e altissima nella sua inattualità.
Quella di elBulli come ristorante è stata un’esperienza eccezionale, capitalisticamente insostenibile e dunque non riproducibile. Un glorioso fallimento come tutto ciò che anticipa, in un presente inadeguato, le meraviglie del futuro. Non ha senso parlare dei singoli piatti perché quello che conta è stato il metodo, il pensiero generale, la poetica. La cucina del Bulli ha toccato le corde del grottesco così come quelle della spiritualità, è stata ironica ma anche lirica, consonante e dissonante, dissacrante, dadaista ma anche gastronomicamente colta e addirittura filologica; viscerale, espressionista, surreale, erotica, violenta, fiera, moraleggiante ma anche evanescente, leggera, impressionista. E olimpica, geometrica, concettuale. Ha saputo rendere sublime il disgustoso e la puzza, e lirico il dolore gustativo. È stata una cucina contro natura non solo per tecnica ma anche per la capacità di pervertire il senso ancestrale del cibarsi e la sensorialità ad esso legata.
E la chiave che ha aperto a questo immenso mondo espressivo è stata, come già detto, l’applicazione di euristiche e tecniche scientifico-industriali a finalità puramente ludico-estetiche. Forse ci aspetta un mondo straordinario, se prima o poi avremo modo di giocare con le forze produttive senza i vincoli del mercato.
Redazione Top Taste of Passion